CASTROVILLARI – Sorprende ed incanta per la bellezza pungente, il realismo verace, ma anche per l’introspezione dentro se stessi. Dentro ciò che vorremmo essere ed invece siamo costretti a diventare. Per necessità o bisogno, per urgenza o capacità. Trapanaterra è un viaggio dinamico nel sud fedele alle sue radici, ma cosciente di dover essere moderno per non perdere il passo di una società che vuole produrre, conquistare la scena, crescere e svilupparsi anche sapendo che si vende l’anima al “diavolo”. Che l’essenza della socialità, delle relazioni, di ciò che siamo sempre stati nella purezza di esserlo, può essere calpestata ed annullata da una esigenza produttiva che non guarda a ciò che sei, ma sa bene ciò che vuole. Così l’eterno conflitto tra chi resta e chi parte si evidenzia sia nell’architettura brillante che sulla scena immagina il borgo da vivere come una macchina perfetta dove c’è tutto (la musica, la sacralità, le relazioni, i conflitti, la quotidianità), sia nella scontro tra le due anime in gioco sul palcoscenico. I due fratelli che si amano, si respingono, si accusano, si ricordano, sapendo che ciasuno ha perso e guadagnato qualcosa nell’essere ciò la vita, il contesto, la modernità gli ha chiesto di diventare. Tutto ha un ritmo così incalzante e vero che sembra raccontare la vorticosità dei giorni moderni dove tutto si rincorre e tutto fa fatica ad essere assorbito che subito richiama un nuovo inizio, un nuovo ricordo, una nuova tappa da raggiungere. In questa architettura di relazioni, di umanità svelata e nascosta allo stesso tempo, c’è il tempo di chi parte in cerca di fortuna e di chi è rimasto costretto a cogliere uno sviluppo che aggredisce, rapisce, imputridisce il ricordo di un tempo che non c’è più. Il ritmo attoriale è splendidamente incastonato dentro questo desiderio di racconto che fa elevare l’umanità sofferente e brillante di una storia che è la storia di tutti noi. Quel memoria tra passione e desiderio, tra speranza e realtà che a volte esalta ed a volte affossa ciasuno e tutti. In un rito collettivo che è li inciodato nella impalcatura perfetta di una fabbrica del presente che ci ricorda chi siamo e non siamo riusciti a diventare.