CASTROVILLARI – La verità sà essere violenta come un fendente che trapassa la carne, viva come lo zampillo di sangue che sgorga dal corpo appena trafitto. Può essere amara da digerire, come il boccone servito da Atreo Aiello (macellaio/carnefice) alla madre di Santino Panzarella. Angelo Colosimo (nella foto di Angelo Maggio) racconta una storia di cronaca, ancora senza verità, e lo fa con dinamico ritmo e cruda passione. Dietro il rito dell’uccisione del maiale si nasconde un crimine efferato, voluto, cercato, costruito nei minimi dettagli per vendicare nel sangue uno “sgarro” familiare. Santino gli ha “fottuto” la moglie e lui, che gli ha fatto da padrino di battesimo, deve lavare nel sangue e con la morte (che è sua compagna quotidiana) lo sgarbo subito. L’onta dell’offesa si consuma nelle campagne, lontano da sguardi indiscreti, dove le grida dell’uccisione si perdono nel vuoto della natura ferma, accompagnate dal ritmo veloce della tarantella. Il rito del sacrificio si compie sotto gli occhi di pochi ministri che eseguono un rituale, ne assumono una parte di responsabilità, ne dimenticano il valore, come nel più lucido atto criminale. Il banco del macellaio diventa così tribunale di condanna, mensa del sacrificio, tavola della condivisione amara di una verità che ciascuno costruisce per se e che non ha un solo colore, come vorrebbe la madre di Santino, ma può assumere la veste dell’arcobaleno, di cui ciascuno sceglie la parte che gli serve. Violento come il braccio dell’uccisore; romantico quanto basta nelle rievocazioni ed i ricordi di un tempo che fu e che non sarà mai più, ma anche lucido e spietato come una mente assassina, che sà dove deve arrivare e segue lo schema che porta al successo. Angelo Colosimo sa rapire lo spettatore, lo conduce negli andirivieni del racconto, lo porta per mano fino alla “capizza” dell’omicidio, dove il corpo del traditore/amico sta per essere fatto a brandelli, come quello di un maiale, per essere dato in pasto alla gente come scempio ultimo di una macraba vicenda che è senza colpevoli. Tutto nel più naturale degli scenari. Facendo quasi assorbire la naturalezza di una violenza che è più cruda da narrare che da compiere. Almeno così sembra. Ma la violenza è come la verità: ti segna, ti corrode l’anima, anche quando vuoi dimenticare e provi a farlo tornando alla normalità del quotidiano, impegnato a servire tutti, senza scontentare nessuno. Ma non si può fuggire dal proprio vissuto. E c’è una madre disperata che torna sempre lì, nella piazza, a gridare il dolore e cercare un corpo che non si trova, per dargli la giusta sepoltura, la dignità che merita e che per qualcuno non vale nemmeno uno sputo. Quel corpo dilaniato, trasformato in carne da macello, quasi ostia sfreggiata di barbara vendetta, diventa nutrimento in quella ricerca affannosa che ora si conclude, attorno ad una mensa, quella dell’assassino, che diventa conciliante, accogliente. E poi si prepara a colpire ancora, nella carne viva.