“Recisioni e suture”. E’ il libro di poesie scritto da Giuseppe Castrillo, docente di Lettere italiane e latine, originario di Pietravairano (Caserta), dove ha vissuto quasi ininterrottamente per più di cinquant’anni e, attualmente, residente a Piedimonte Matese (sempre in provincia di Caserta). Una raccolta di versi che diventano incontri, ricordi e sensazioni di diversi momenti della vita, rimpianti e dolori che attraversano il corpo e i pensieri, ma sempre tendenti alla ricerca di una nuova meta, una pace interiore. Tagli che vengono ricuciti – come suggerisce il titolo dell’opera – per favorirne la cicatrizzazione.
E proprio riguardo al nome dato alla raccolta delle liriche, pubblicata nella collana “I Diamanti” della Aletti editore, l’autore confessa che il titolo «è frutto del legame con suo padre che è stato per più di quarant’anni medico condotto, come si diceva un tempo». «Credo infatti – precisa Castrillo – che la vita, a volte, sia un’operazione chirurgica: qualcuno e qualcosa vengono recisi dal proprio cuore, dalla propria mente, ma poi il ricordo e la memoria suturano le ferite e fanno riaffiorare quelle persone, quei fatti, quelle cose che furono recisi, tagliati, asportati».
La poesia diventa, allora, il culmine di un percorso passato dalla lettura dei fumetti ai classici e alla narrativa, plasmato, poi, nella scrittura di saggi critici e poetici. Un “taccuino del trito sentire” – come recita il sottotitolo del libro. «Per me – racconta l’autore – è un gioco di memoria, di raccolta di luoghi visti e ripresi, di persone abbondonate dentro di me e riportate in vita. La poesia mi viene incontro come una compagna che non cerco, un ospite inatteso con i quali comincio una conversazione che non vorrei mai interrompere, di cui ho bisogno perché volendo parlare sempre più di rado con le persone fisiche. Grazie alla poesia parlo con le cose che vedo e che ricordo di aver visto, con i paesaggi e con chi mi appartiene».
Nella sua prefazione Cosimo Damiano Damato parla della raccolta dei versi come di un «melodramma napoletano», dove ogni addio, ogni esplosione di libertà, ogni perdizione, pentimento e la morte, come ultima fotografia da scattare, vengono scattati «con gli occhi, occhi meridionali, occhi capaci di cantare come solo gli occhi napoletani sono capaci di tanto melodramma epico e per sempre».
Un continuo susseguirsi di luoghi e memorie, che si alternano e formano il vissuto. «La mia raccolta – afferma Castrillo – è stata scritta ascoltando l’invito/ammonizione di Montale: “Non recidere forbice quel volto”, evitando che i segmenti del tempo di una vita cadano nel fango. Per me il “tagliare e ricucire” è non solo la metafora della vita, ma la lezione del vivere: in natura nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Io aggiungerei al “si trasforma” di Lavoisier tutto si reintegra, tutto si riplasma».